mercoledì, marzo 13, 2024

AVEVANO SPENTO ANCHE LA LUNA di RUTA SEPETYS


ll romanzo di Ruta Sepetys descrive, pur attraverso personaggi inventati, vicende reali: fatti troppo e purtroppo ignorati o solo superficialmente conosciuti.

Nell’estate del 1940 quando i paesi baltici vengono annessi all’Unione Sovietica, la dittatura di Stalin mette in atto un’implacabile campagna al fine di eliminare ogni potenziale minaccia per il regime. Pertanto, famiglie intere e persone di qualsiasi estrazione sociale vengono aggiunte alle liste dei nemici di classe, arrestate e deportate in un girone infernale.

La vicenda di Lina, voce narrante della storia, incomincia proprio con questo traumatico avvenimento.

“Mi arrestarono in camicia da notte … Non fu un bussare, fu un rimbombo cupo e insistente che mi fece sobbalzare sulla sedia”.

Solo nei giorni tra il 14 e il 18 giugno 1941 la polizia sovietica cattura in Lituania 45 mila abitanti, tra questi ci sono 2’400 bambini che hanno meno di dieci anni. I prigionieri sono condotti alla stazione e costretti a salire sui vagoni merci, ammassati come bestie. Nel corso di un viaggio ai confini della realtà, durante il quale molti prigionieri muoiono di stenti, i convogli raggiungono i gulag siberiani.

Analogamente a ciò che accade agli ebrei nell'Europa occupata dai nazisti, nel momento in cui gli abitanti del villaggio di Lina salgono sulle carrozze dei treni, vengono privati della dignità. Agli occhi dei soldati della polizia sovietica (NKVD) questi individui smettono all’istante di essere persone, quegli occhi, quei corpi magri diventano una materia animata ma senza anima nè cuore e diritti. Forse è proprio quello il momento in cui la luna si spegne, ancora prima dell'arrivo in Siberia.

“Sorse il sole e la temperatura nel vagone si alzò rapidamente. L’odore stagnante di feci e di urina incombeva su di noi come una coperta sudicia… Una guardia si avvicinò al vagone e ci porse due secchi uno d’acqua e uno di brodaglia…L’intruglio grigio sembrava mangime per animali. Qualche bambino si rifiutò di mangiarlo”.

I personaggi raggiungono la zona dei monti Altaj in Mongolia, ad una distanza di quasi 6 mila chilometri dalla loro terra di origine. Dopo alcuni mesi in questo campo di lavoro forzato, Lina e la sua famiglia si separano dagli altri per essere trasferiti fino a Trofimovsk, luogo gelido e inospitale alle soglie del mar glaciale Artico.

Proprio come i lager nazisti, i gulag sono dei campi di concentramento. Il regime sovietico si avvale di questo tipo di insediamento per eliminare chiunque sia ritenuto scomodo, indesiderato sulla base di sospetti infondati o su indicazione di subdoli delatori. Imponendo ritmi di lavoro disumani, in condizioni climatiche estreme, il governo sfrutta i reclusi fino al loro completo annientamento. Fame, fucilazioni arbitrarie, minacce, continue violenze fisiche e psicologiche sono all’ordine del giorno.

“Si avvicinò l’autunno. L’NKVD ci faceva lavorare sempre di più. Se per caso osavamo incespicare, riducevano la nostra razione di pane. La mamma riusciva a racchiudere il mio avambraccio fra il pollice e il medio della sua mano. Non avevo più lacrime… Era difficile immaginare che la guerra infuriava da qualche parte in Europa. Noi avevamo la nostra guerra personale, aspettando che l’NKVD scegliesse la vittima successiva, che ci gettasse nella prossima buca”.

L’io narrante è la voce di una ragazza adolescente, quattordicenne al momento del rastrellamento. Tra le varie figure del romanzo lei spicca con una straordinaria forza di volontà. Consapevole di essere nelle mani di carnefici perversi, reagisce alla malvagità con coraggio e senza vittimismo. Al contrario, usa il talento del disegno, per rappresentare graficamente tutto il male di cui è testimone e lasciare ai posteri, tramite la potenza delle illustrazioni, il suo grido di denuncia.

“Era più difficile morire o essere tra i sopravvissuti? Io avevo sedici anni, ero un’orfana in Siberia, ma conoscevo la risposta. Era l’unica cosa di cui non avevo mai dubitato. Volevo vivere. Volevo vedere mio fratello crescere. Volevo rivedere la Lituania…Volevo annusare il mughetto nella brezza sotto alla mia finestra. Volevo dipingere nei prati…C’erano solo due possibili esiti in Siberia. Il successo significava vivere. Il fallimento significava morire. Il volevo la vita. Io volevo sopravvivere”.

L’autrice, di origine Lituana, scrive questo romanzo dopo avere svolto un’accurata ricerca, documentandosi mediante le testimonianze dei superstiti o ascoltando quelle dei loro discendenti.

Alcune guerre si vincono con i bombardamenti. Per le popolazioni del Baltico questa guerra è stata vinta credendoci. Nel 1991, dopo cinquant’anni di brutale occupazione, i tre paesi baltici hanno riconquistato l’indipendenza in maniera pacifica e con dignità. Hanno scelto la speranza e non l’odio e hanno dimostrato al mondo che anche alla fine della notte più buia c’è la luce. Per favore, fate ricerche sull’argomento. Parlatene. Queste tre piccole nazioni ci hanno insegnato che l’amore è l’esercito più potente”.

Parliamone!

 

 Dovremmo riempire il cuore di gentilezza, la bocca di educazione, le mani di accoglienza e la testa di buoni libri.

 Forse solo così potremmo tornare a essere umani.

                                                    (Fabrizio Caramagna)

 

 

 

 


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