martedì, febbraio 27, 2024

LESSICO FAMIGLIARE di Natalia Ginzburg

 


LESSICO FAMIGLIARE nasce dall’intenzione dell’autrice di realizzare un breve racconto con cui rappresentare il linguaggio e le memorie della propria famiglia. Lo spunto linguistico in realtà si spinge oltre le previsioni della scrittrice e diviene una lunga analisi, attenta e approfondita, di tutto il mondo che le ruota intorno: epoche, persone e personaggi, dinamiche sociali, culturali e politiche compongono un grande affresco storico, umano e psicologico.

La cronaca inizia proprio con l’infanzia di Natalia Ginzburg, la più piccola dei cinque figli della famiglia Levi, ebraica dalla parte paterna e cattolica da quella materna.  Il modo in cui parenti e amici sono descritti, li rende riconoscibili e consueti negli atti, nelle reazioni e nelle fissazioni. Fin da piccola, la narratrice li osserva cosi come li vede e come li vive di giorno in giorno, mostrandoli senza giudizio. Istintivamente li si comprende, poiché le loro azioni corrispondono alla loro natura. Il personaggio più impetuoso è certamente il padre Giuseppe. Uomo di grande cultura, professore universitario, scontroso, testardo, insopportabile e incorreggibile. Coltissimo, eppure incapace di cambiare il proprio punto di vista, prigioniero di se stesso e delle proprie convinzioni. Il lettore, già dopo poche pagine, lo compatisce poiché riconosce subito nella sua inadeguatezza l’impossibilità di progredire.

«Mio padre invece usava gettare sulle cose nuove, che non conosceva uno sguardo torvo, pieno di sospetto».

«-Cosa sono tutti quei fulignezzi? I fulignezzi erano, per mio padre, i segreti: e non tollerava veder la gente assorta a parlare, e non sapere cosa si dicevano».

Lidia, la madre, è una donna affettuosa, amorevole ma anche volubile e dall’animo mutevole, spesso un’anima in pena, che non sta bene veramente da nessuna parte.

«Come vorrei essere un re fanciullo, - diceva mia madre con un sospiro e un sorriso, perché le cose che più la seducevano al mondo erano la potenza e l’infanzia, ma le amava combinate insieme, così che la seconda mitigasse la prima con la sua grazia, e la prima arricchisse la seconda di autonomia e di prestigio».

Di questa figura ciò che più ho apprezzato è la naturale inclinazione a diventare cinque madri diverse, modellando ogni volta se stessa in base alle esigenze di ciascun figlio.

«Com’è carino, com’è simpatico Mario – diceva mia madre lisciando i capelli a Mario che s’era appena alzato, e aveva per il sonno, gli occhi piccoli, quasi invisibili … - Non trovi anche tu che il Mario è bello? - chiedeva a mio padre. – Io non lo trovo tanto bello. È più bello il Gino – rispondeva mio padre».

«Mia madre sentiva per me un senso di protezione che non sentiva per gli altri suoi figli, forse perché io ero, dei suoi figli, la minore … Inoltre le sembrava sempre che io fossi in pericolo, perché Leone di tanto in tanto lo arrestavano».

La storia dagli anni del fascismo fino al dopoguerra è coprotagonista di tutta la vicenda dei Levi. I tragici accadimenti di quell’epoca hanno immediate conseguenze nelle dinamiche della famiglia. Tanto che l’opera è una testimonianza davvero preziosa di quegli anni cruciali per il destino di tutti e degli ebrei in particolare.

«E poi mio padre … pensava di essere uno dei pochi antifascisti rimasti in Italia … Salvatorelli, i Carrara, l’ingegner Olivetti erano i pochi antifascisti rimasti, per mio padre, al mondo. Essi conservavano, con lui, ricordi del tempo di Turati, e di un falso costume di vita che sembrava fosse stato spazzato via dalla terra. Stare in compagnia di queste persone significava respirare un sorso d’aria pura».

Natalia sposa Leone Ginzburg, intellettuale, ebreo e antifascista.

«Leone dirigeva un giornale clandestino ed era sempre fuori casa. Lo arrestarono, venti giorni dopo il nostro arrivo, e non lo rividi mai più».

Dell’intero romanzo mi impressione il punto di osservazione da cronista. La scrittrice riesce sempre a rimanere oggettiva, i fatti sono i fatti così come si sono svolti. Il dolore si immagina, si interpreta ma non lo si descrive. Inevitabilmente davanti al lettore scorrono i fotogrammi degli avvenimenti ma l’identificazione con le emozioni dei protagonisti richiede uno sforzo ulteriore.

Di Lessico Famigliare l’aspetto più interessante per me resta ciò che il titolo contiene: quel linguaggio particolare ed esclusivo che le famiglie usano per comunicare nella quotidianità e che, in parte, sostituisce ed integra l'idioma ufficiale. Per tacito accordo tutti i membri del focolare domestico, ricorrendo a delle parole che solo loro possono riconoscere, consolidano il senso di appartenenza al proprio gruppo.

«Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in cinque città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire (…) De cose spussa l’acido solfidrico per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti… Una di quelle frasi ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone».

Alcune espressioni come non fate malegrazie, non fate sbrodeghezzi, cosa sono tutti quei fulignezzi … evocano probabilmente in ogni famiglia un analogo repertorio. Allora mi soffermo sul mio lessico famigliare, costruito attraverso episodi buffi, presi in prestito dall’infanzia, reso ancora più strano dal miscuglio dei dialetti e delle lingue che hanno attraversato la mia vita. Mia zia che diceva di mangiare l’insalata che sgrümasa (e sgrümaserà per sempre), mia figlia che ci chiedeva cosa facete? o si complimentava dicendo brava idea! Per non parlare dell’isola di Gallinara in Liguria ribattezzata isola della gallina. Insomma tutti abbiamo contribuito alla costruzione di un gergo magico e poetico, straordinariamente efficace. Comunque vadano le cose e per quanto possano essere complicate le relazioni, laddove esiste un lessico famigliare, esiste una famiglia.

 

 

 

 

 

 


giovedì, febbraio 08, 2024

SOLARIS di STANISLAW LEM


Nonostante il genere della fantascienza sia lontanissimo dai miei interessi, credo che sia bene, di tanto in tanto, esplorare zone sconosciute per vedere altro e fare esercizio di pensiero trasversale: in effetti, il libro di Stanislaw Lem ha numerosi aspetti su cui vale la pena soffermarsi.

Solaris è un pianeta in cui l’unica forma di vita è un oceano gelatinoso e pensante. Lo psicologo Chris Kelvin, che vi si reca in missione, riscontra immediatamente una serie di stranezze: morti sospette, visioni strambe e misteriose. Gli scienziati lì residenti sono molto turbati e confusi.  L’intera vicenda della stazione spaziale ruota intorno al moto di un mare intelligente, un marasma in grado di scansionare la memoria degli studiosi durante il sonno, carpendone desideri ed intimi pensieri, al fine di creare delle repliche, altri ospiti che altro non sono che le proiezioni dei loro ricordi. Nel caso di Chris, sconvolgente è l’incontro con la moglie (o la sua copia), morta suicida dieci anni prima della missione.

Nonostante le tante pagine difficili da comprendere, per chi, come nel mio caso, non abbia delle solide basi scientifiche, il libro è davvero straordinario per la sua modernità. Basti immaginare che, benché Solaris sia stato pubblicato per la prima volta nel 1961, i personaggi comunicano tra loro all’interno della base spaziale attraverso una primordiale chat di gruppo.

L’attenzione del lettore si rivolge sia al sapere scientifico che alla psicologia, e mi chiedo quale tra le due discipline sia più ostica da esplorare. Gli ambiti che indagano mondo esterno e natura osservano delle leggi meccaniche, nelle quali il ripetersi di certi fenomeni di solito dà luogo a delle regole, pur con tutte le possibili eccezioni. Quando invece si percorre il campo delle scienze umane e delle psiche non è forse ogni singolo uomo l’eccezione per antonomasia? Ciascun individuo costituisce una singola ed irripetibile materia di studio, con dinamiche proprie e tuttavia non sempre comprensibili.

“L’uomo era andato incontro ad altri mondi ed altre civiltà senza conoscere fino in fondo i propri anfratti, i propri vicoli ciechi, le proprie voragini e le proprie porte sbarrate”.

Già nel 1961 l’autore mette in luce l’arroganza e l’egoismo della nostra specie, ne denuncia tutta l’ipocrisia, quando nel proclamare i più nobili obiettivi, in realtà questa persegua unicamente l’espansione del proprio ego. Davvero l’uomo è alla ricerca del progresso attraverso il confronto, o è più facilmente teso ad affermare la sua potenza mediante l’annichilimento di tutto ciò che lo ostacola o lo mette in discussione?

“In realtà quello che vogliamo non è conquistare il cosmo ma estendere la terra fino alle sue frontiere…siamo nobili e umanitari, non vogliamo asservire le altre razze ma solo trasmettere loro i nostri valori e, in cambio, impadronirci del loro patrimonio. Ci consideriamo i cavalieri del Santo Contatto e questa è la menzogna numero due: la verità è che cerchiamo soltanto la gente. Non abbiamo bisogno di altri mondi ma di specchi…Il fatto è che non arriviamo dalla terra come campioni di virtù o come monumenti dell’eroismo umano: ci portiamo dietro esattamente quello che siamo e quando l’altra parte ci svela la nostra verità ­­– il lato che teniamo nascosto – non riusciamo ad accettarla!”.

Da questa lettura ho capito che anche se un testo non mi appassiona o mi costa fatica nel leggerlo, non è detto che non abbia qualcosa di importante da trasmettere. Per tutto il tempo mi chiedevo:«ma qual è il messaggio? Perché qualcuno mi ha assegnato questo compito? Cosa devo imparare?». Trattandosi di un libro di fantascienza ognuno può trarre le più originali conclusioni. La mia è che noi terrestri, in generale, tendiamo istintivamente a proiettare sugli altri una personalissima visione dell’esistenza e nel farlo interagiamo con il prossimo più come se fosse uno specchio che un essere separato e indipendente dai nostri ragionamenti: proiettiamo aspettative, desideri, il nostro concetto di giusto o sbagliato. A Chris viene restituita la replica della moglie Harey, non la compagna come è veramente ma quello che l’oceano ha scoperto nel subconscio del protagonista, come lui la vede, la vuole e la sente. Queste presenze alla fine sono dei simulacri, che non riportano in vita se stesse ma l’immagine che gli umani avevano di loro. Il messaggio forte e chiaro è quello di sforzarsi di guardare gli altri per come sono veramente e non per come noi ci ostiniamo a vederli. Del resto, per quanto sia complicato mettersi da parte, è decisamente più gratificante essere circondati da anime vive, vere, pensanti e dissenzienti piuttosto che da pura apparenza.

Ora, detto questo, le persone che ci stanno sulle palle (perdonate il francesismo) possono continuare a stare lì dove si trovano ma… si può fare il piccolo esercizio di ricordare che costoro sentono, vivono e pensano a proprio modo e piacimento, a prescindere da noi e, probabilmente, quei loro gesti fastidiosi avvengono nostro malgrado e non a causa di uno studiato piano persecutore. Proviamo a convincerci che, per fortuna, noi non siamo così importanti per loro. Siamo solo e per fortuna diversi da loro.



 

 

 

 

 

 

 

DOMANI, DOMANI di Francesca Giannone

  Il romanzo si svolge nel Salento durante il biennio compreso tra l’estate del 1958 e quella del 1960. Lorenzo e Agnese gestiscono insiem...