mercoledì, giugno 12, 2024

L'INCREDIBILE ARITMETICA DI UN'AMICIZIA di Paola Brighenti

 

La vera amicizia si sublima ignorando qualsiasi differenza: età, condizione sociale, credo, lingua, colore, genere… così come anche l’appartenenza a una specie piuttosto che a un’altra. Di fronte alla meraviglia di due anime che si incontrano e si riconoscono affini, svanisce ogni categoria. Che sia pennuto, peloso, bipede o quadrupede, universale è il valore della connessione empatica. Nel romanzo di Paola Brighenti i protagonisti sono il cavallo Paco, purosangue con un glorioso passato ma sofferente a una zampa, e il giovane Dodo, studente discalculico. Si tratta di individui dotati di una sensibilità cosi straordinaria da riuscire a leggere i pensieri, ascoltare il silenzio e trovare in sé risorse sconosciute.

Paco è fornito di un superpotere, che lo connette direttamente all’animo di Dodo.

«Quando mi si avvicina un umano che in quel momento prova un’emozione forte o ha qualche problema oppure ricorda un episodio della sua vita, io lo percepisco “vedo” le immagini che gli passano per la testa. Il più delle volte non ne capisco perfettamente il significato, ma chiaramente capto gioie e dolori, paure o speranze».

Dodo, a sua volta, occupandosi dell’amico, si scopre forte e tenace. Le cure e le attenzioni profuse per la salvezza del cavallo oltre a ricompensarlo con un affetto ricambiato, gli restituiscono una visione di sé rivalutata, tale da trasmettergli fiducia e illuminarlo di nuova luce.

«Dopo la volta del salto della recinzione e delle coccole supplementari al mattino prestissimo, Dodo ha preso l’abitudine di venire a trovarmi, prima della scuola. Accade perfino che me lo veda arrivare durante la notte, per mettermi la coperta sulla groppa. Succede almeno cinque volte, durante il temporale, neanche sappia che a me tuoni e fulmini fanno paura. La coperta che mi appoggia sulla groppa riesce sempre a calmarmi e a farmi sentire al sicuro.
Comincio a capire cos’è l’amicizia.
Forse l’amicizia è prendersi cura l’uno dell’altro».

In virtù dell’incontro con Paco si genera un altro Dodo, più audace e coraggioso, in grado di affrontare le sfide della quotidianità con attitudine vincente. L’amicizia risveglia nel giovane un’inarrestabile grinta: il ragazzo che lotta per la salvezza del cavallo destinato al macello è lo stesso che, nonostante cadute e ricadute, prova e riprova a risolvere i suoi problemi con la matematica.

«Io non sono il mio errore».
Lo vedo entrare nella sua camera. Prende due fogli grandi e su uno scrive a lettere enormi “Paco non è la sua zampa malata” e sull’altro “Io non sono il mio errore”.

Il destriero infermo, voce narrante, è come un vecchio saggio che molto ha vissuto e galoppato. Pur amando la vita incondizionatamente, senza illusioni accetta la sorte che pare attenderlo. Eppure, nei suoi pensieri, egli si conserva un purosangue. Accoglie il dolore che lo affligge e un destino scritto da altri con la fermezza di chi, anziché disperarsi di fronte agli ostacoli, si ricorda della strada fatta fino a quel punto. 

«Ho capito finirò al macello…Non lo vorrei, con tutte le mie forze. Io amo la vita, la considero meravigliosa anche se ho male alla zampa, anche se vivo al freddo e non nel lusso di certe scuderie che sento nominare e pare esistano davvero, anche se non sono libero di scorrazzare nei campi come certi miei simili.
Non penso nemmeno che gli altri siano più fortunati di me: ognuno ha la sua dose di vantaggi e svantaggi. Io, in fondo, ho avuto una bella esistenza e penso di essere stato amato. Se non altro da Dodo».

Il legame tra i personaggi principali evolve e si trasforma. Paco impara a convivere con l’assenza del ragazzo, senza tuttavia perdere il desiderio e la speranza di rivederlo.

«Forse l’amicizia è anche questo: ascoltare l’altro e accettare di non essere sempre al centro dei suoi pensieri». 

La relazione tra i due protagonisti sopravvive alle difficoltà e alla distanza perché entrambi cambiano senza perdere il filo che li unisce.

«In pochi minuti dimentico giorni e giorni di lontananza, di nostalgia. È tornato il presente della nostra amicizia; sembra che ci siamo lasciati solo ieri e ritrovati dopo poche ore di separazione. I gesti sono quelli di sempre e le sue mani raccontano un affetto che non è cambiato.
L’amicizia è anche questo: rimanere legati nonostante il distacco». 

Il libro scorre leggero e piacevole, pur offrendo continuamente spunti di analisi e profonda riflessione. Entrambe le figure principali del racconto hanno una parte rotta, mancante o malfunzionante. Eppure, nell’intero arco della vicenda, perseguendo il reciproco bene, senza sosta splendono. Allora mi chiedo … non è possibile che ciò che chiamiamo connessione e che ci unisce agli altri esseri viventi, non sia proprio la ricerca di quella parte mancante?

Siamo tutti unici e diversi, eppure quando l’amore per un’altra creatura ci fa vibrare, diventiamo il mondo intero.


È solo per un eccesso di ridicola vanità 
che gli uomini si attribuiscono 
un’anima di specie diversa
da quella degli animali.                                                                        
Voltaire

domenica, giugno 02, 2024

SONO TORNATO PER TE di LORENZO MARONE

 

…Un romanzo molto diverso da quelli finora letti dello stesso autore. Il protagonista è sempre un singolo, circondato dalla propria società di appartenenza, ciò che cambia è l’epoca, il contesto storico che ci consente un doloroso ma necessario viaggio nel tempo.

Lo scenario di partenza è Vallo di Diano, una zona situata tra Campania e Basilicata, alla vigilia della seconda guerra mondiale. Questa prima fase della vicenda richiama fortemente alla memoria gli ambienti e le atmosfere descritte dal verismo. Lorenzo Marone, analogamente a Verga, descrive la vita semplice della povera gente, in cui gli umili lavorano duramente e subiscono le prevaricazioni dei potenti.

     -Galletta, dovresti saperlo, le leggi i padroni se le fanno da soli.

Cono, detto anche Galletta, contadino promesso sposo a Serenella, fa fronte alla fatica e alla miseria del luogo in cui vive, convinto di poter coronare un giorno il suo sogno d’amore con la compagna.

Quando tornerò ci sposeremo subito. Avremo una casa accogliente, tanti bambini, qualche buon amico che ci verrà a trovare, gli animali nella stalla e i frutti sugli alberi. Avremo da mangiare e da vestire e ce lo faremo bastare. Invecchieremo insieme, non smetteremo mai di ridere, e un domani la gente racconterà il nostro amore.

Benché il giovane sia in grado di superare gli ostacoli economici, la guerra imminente e la violenza del regime fascista interrompono bruscamente i suoi piani. Come un ingenuo reso esperto dagli eventi, Cono istintivamente si ribella e reagisce, recando a sé e ai suoi un irrimediabile danno.

Il mondo è un posto ingiusto, Cono, impara presto a capirlo, la terra ti ha insegnato a portare pazienza, non puoi lottare da solo contro tutti. Così come non puoi odiare il fuoco, allo stesso modo non puoi sfidare ciò che è ovunque, una forza più grande di te. Puoi solo seminare il tuo pezzo di terra e sperare di raccogliere i frutti. Non abbiamo potere che su poco, la nostra vita, in parte, e quella della nostra famiglia.

Dopo la partenza per il servizio militare, il protagonista viene fatto prigioniero dai nazisti e trasferito in un campo di concentramento. Si tratta delle deportazioni avvenute in Italia dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943.  La quotidianità del lager è descritta con stupefacente realismo. All’autore va riconosciuto il merito di denunciare la crudeltà e la perfidia delle SS, dipingendo scene forti ma efficaci. Il lettore rabbrividisce di fronte alle efferatezze, ma ancora una volta prende atto. Come già avvenuto con letture, film, visite a musei o mirati percorsi storici … ancora una volta il pubblico si rende conto, ancora una volta si sorprende, soffre e si interroga su come tutto questo sia stato possibile. Ancora una volta si chiede come sia ammissibile OGGI questo orrore senza fine e senza senso che chiamiamo guerra.

A tenere vivo il ragazzo in quel tormento sono l’amore per Serenella e l’abilità nel tirare di boxe. Egli si estranea dall’inferno di cui è parte, sostituendo le immagini lugubri e spettrali della quotidianità con quelle liete e radiose del suo paese di origine.

Dalla baracca Cono scorgeva uno spicchio di cielo, e nelle notti limpide riusciva a riempirsi gli occhi di luci. In quei momenti tornava inevitabilmente ai suoi cieli, alle dormite nei campi, sotto gli ulivi; dinanzi alle stelle Cono aveva rivelazioni che di giorno ignorava, gli veniva da interrogarsi sull’immortalità.

La lettura consente non solo di immaginare cosa sia un lager nazista, ma anche di ascoltare i pensieri, i discorsi e le fantasie dei prigionieri che vi sono reclusi dentro. Che sia uno specifico ricordo o la trasfigurazione di questo in qualcosa di ancora più bello, focalizzarsi sulla vita attesa significa contrastare la fine incombente e la sensazione di poter essere uccisi all'improvviso e senza alcuna ragione.

Era rimasto lì a domandarsi come fosse possibile ammazzare uno che non t’ha fatto niente, di cui niente conosci, uno nato in un altro posto e che parla un’altra lingua, solo per obbedire a un ordine, per ragioni che non sai, o che credi di sapere e non sai.

Arriva un momento in cui  Cono crede di non poter resistere oltre e, percependo di essere allo stremo, si interroga sulla morte. Osserva se stesso, i compagni che si arrendono e quelli che incredibilmente restano aggrappati al proprio corpo. Alla gravità del giovane che pensa di lasciarsi andare viene in soccorso un nuovo ricordo, in cui la leggerezza di un aldilà terreno e amico fa da contrappunto alla fatica di esistere in quel cimitero di vivi.

-Promettimi, - gli aveva detto una volta Serenella, con la mano nella sua e lo sguardo al cielo, stesi fianco a fianco nel frumento, - promettimi che quando Dio ci obbligherà a morire, saprai riconoscermi lassù, tra tutte quelle stelle… - Ma se proprio dovesse capitarmi di morire, – aveva aggiunto lui, - allora non cercarmi lassù, - e aveva indicato il cielo, - ma qui, nei dintorni, tra i campi e tra gli alberi, accanto a te, perché lì mi troverai. Morire è solo non essere visti.

Come negli altri romanzi dello stesso autore l’intero racconto verte sulla parabola di un individuo che cresce, evolve e cambia, dando così luogo a un nuovo inizio. Tra tutti i protagonisti dei libri di Marone, Cono Trezza è colui che per eccellenza compie davvero qualcosa di epico. La sua trasformazione all’interno del campo di concentramento resiste alla logica del male. Egli pone il dilemma di come sia possibile frantumarsi in migliaia di pezzi, irreparabilmente rompersi, eppure continuare a funzionare: restare umani nonostante la totale disintegrazione della dignità. In qualche modo, in virtù dell'amore dato e ricevuto, egli si conserva uomo.  

Cono era rimasto a chiedersi se fosse quella la fede, provare compassione per un altro uomo e sentire d’essere una cosa sola con lui nel dolore, sapere che nella sofferenza siamo tutti uguali, tutti ultimi, tutti sulla croce, come Cristo.

Ci sono dei libri che raccontano storie. Poi, ce ne sono altri che, toccando dei tasti speciali, raggiungono i luoghi più nascosti dell'anima e ci incontrano lì, nello spazio sospeso della lettura, pronti a ricevere un messaggio o a riconoscere una voce. SONO TORNATO PER TE è così; appartiene al genere che io definisco ''il viaggio che non si dimentica''.

 

 

martedì, maggio 14, 2024

NESSUNO PUÒ FARTI STARE MALE SENZA IL TUO PERMESSO di P. BORZACCHIELLO - E. SEDNAOUI

 


Nessuno può farti stare male senza il tuo permesso è un corso di autodifesa emotiva. Il testo, strutturato in forma di diario, sembra rivolgersi ai giovani e ai giovanissimi. I protagonisti sono infatti alcuni ragazzi che frequentano le scuole superiori; il linguaggio è semplice, immediato, costituito da periodi brevi ed efficaci. Al di là del pubblico a cui è destinato, credo che il lettore possa appartenere a qualsiasi generazione, poiché ognuno di noi vi può trovare delle istruzioni preziose.

La prima delle sfide lanciate dagli autori scaturisce dal bisogno di riconoscere e gestire le emozioni più impetuose: “Se vuoi stare meglio, devi tenere un bel diario… un diario riferito agli episodi emotivi che ti turbano, con le tue riflessioni e nel quale descrivi quel che ti capita e quando, e in cui magari, elenchi le tue idee riguardo a ciò che potresti fare per stare meglio e così via”. Già in altre pubblicazioni a sfondo psicologico ho trovato lo stesso consiglio. Tuttavia, non credo che sia praticabile con costanza: di fatto, l’analisi richiede tempo e attenzione focalizzata su ogni singolo episodio che ci causa agitazione. Non si tratta solo di raccontare cosa è successo ma di andare dietro all’esperienza e guardarsi dall’interno con fare investigativo. Dopo qualche tentativo, ci si interrompe, perché un così complesso ragionamento esige un notevole investimento di energie. Perché invece non scrivere delle lettere a se stessi? Parlarsi a cuore aperto e andare a prendere per mano quella parte di noi che si è persa.

Del libro trovo geniale un principio semplicissimo, di cui purtroppo si trascura il valore. “Le persone possono dirti quello che vogliono, ma sei sempre e solo tu che scegli di credere o non credere a quello che dicono. E soprattutto sei tu che puoi dare o non dare valore alle persone che ti dicono quelle cose”. Alla fine, l’importanza di un discorso dipende da chi lo pronuncia. Passiamo il tempo a giustificarci o a difenderci dai giudizi altrui, sprecando inutili risorse. Il fatto che qualcuno ci attribuisca delle caratteristiche, non significa che noi siamo così come ci definiscono. Al contrario, più insistiamo nel voler modificare l’opinione dei nostri detrattori, più gli diamo ragione. Quando poi la critica proviene da una fonte di risaputa stupidità, la risposta più bella è la seguente: “Si, e quindi?” … sostenendo fieramente lo sguardo con l 'arrogante interlocutore.

“Ricordati che le parole che tu scegli per descrivere il mondo dicono chi sei tu, non com’è il mondo”. Questo vale per tutti, per noi quando proiettiamo sul prossimo la nostra visione della realtà così come per l'altro, nel momento in cui giudica e pontifica.

“La tua realtà è il risultato delle parole che usi per descriverla”: Analogamente alla PNL (programmazione neurolinguistica), anche in questo manuale si offre una strategia basata sulla scelta del linguaggio, sulla visualizzazione e sul raggiungimento di uno stato di calma interiore. Alla fine, si tratta di creare delle suggestioni positive che attraverso respiro, immagini e parole creino un circolo virtuoso. “Ecco perché devi sempre prestare attenzione alle parole che usi e a quante ne usi… perché le parole che usi diventano gli ormoni che hai in corpo, e questi ti fanno star male o bene. Cosi come dici di stare, stai”.

Non credo che gli esseri umani siano tutti così crudeli da fare deliberatamente del male ai loro simili, penso piuttosto che lo facciano senza rendersene conto. La maggior parte delle volte si è così limitati, da non capire neppure il peso delle proprie azioni ...e non so cosa sia peggio tra la cattiveria e l'ignoranza. "Quando ti parlano dietro e complottano, magari divertendosi a creare litigi tra altre persone, questo è bullismo. Quando in una chat nessuno risponde ai tuoi messaggi, come se non ci fossi, questo è bullismo…tutti i giorni tantissime persone vengono escluse e per loro è una gran lotta".

Quanto più si è pronti a cambiare e a lavorare su se stessi, tanto più ha significato la lettura di questo manuale.  E in ogni caso, la prossima volta, se qualche bullo cercherà di attaccarci con fatti, gesti o parole, non saremo noi a dargli le armi e soprattutto avremo qualche strumento in più per neutralizzare gli stronzi 💪.

Regalate questo libro ai vostri figli e ai figli dei vostri amici.

 




 

 


giovedì, aprile 18, 2024

L'ELEGANZA DEL RICCIO di Mauriel Barbery

 

Rue de Grenelle 7, a Parigi, è sede di un elegante palazzo da cui si possono osservare i destini degli altolocati condomini. La maggior parte di costoro sfiora la narrazione, salendo e scendendo i piani dell’edificio e passando distrattamente davanti alla guardiola di Madame Renée Michel. Benché la portinaia appaia come una donna di mezza età poco curata, robusta, piuttosto asciutta nei modi e teledipendente, ella è in realtà una persona coltissima, esperta di arte, filosofia, musica e appassionata alla cultura giapponese.

Ho battuto in ritirata, certo, rifiutando lo scontro. Ma, nel chiuso della mia mente, non esiste sfida che io non possa accettare. Umile per nome, posizione e aspetto, nell’intelletto sono una dea invitta”.

Tra i pochissimi in grado di vedere oltre le apparenze, la dodicenne Paloma, che diventerà sua amica. La ragazzina, dotata di straordinaria intelligenza, progetta il proprio suicidio, insofferente e stanca dell’ipocrisia e della mediocrità che la circondano.

“Quindi mi avvio tranquillamente alla data del 16 giugno e non ho paura. Magari qualche rimpianto, forse. Ma il mondo, così com’è, non è fatto per le principesse”.

Ah come la capisco!

Mi imbatto continuamente in una società che attribuisce agli individui etichette e ruoli. Su tali basi le persone smettono di essere chi sono per diventare personaggi, identificandosi in qualcosa che qualcun altro ha stabilito per loro, forse ancora prima che nascessero. Renée e Paloma fanno esattamente il contrario. Fin da piccole si mimetizzano, riconoscendo i limiti delle opinioni correnti e la schiavitù degli stereotipi, sentono il bisogno di proteggere la propria identità e il proprio talento dal giudizio e dalle contraddizioni dei luoghi comuni. Mentre la custode si ribella a tutto questo offrendo ai residenti del palazzo l’immagine che costoro di lei si sono fatti, la ragazza si nasconde di continuo da una famiglia in cui si sente estranea e prigioniera.

“E io forse sono la più grande vittima di questa contraddizione, perché per un’oscura ragione sono ipersensibile a tutto ciò che stona, come se avessi una specie di orecchio assoluto per le stecche, per le contraddizioni”. (Paloma)

“Non vediamo mai al di là delle nostre certezze e, cosa ancor più grave, abbiamo rinunciato all’incontro, non facciamo che incontrare noi stessi in questi specchi perenni senza nemmeno riconoscerci. Se ci accorgessimo, se prendessimo coscienza del fatto che nell’altro guardiamo solo noi stessi, che siamo soli nel deserto, potremmo impazzire”. (Paloma)

Eppure, nella loro solitudine, tanto la bambina quanto l’adulta svolgono riflessioni importanti, frequentano la bellezza e ne fanno ripetuto esercizio. Attraverso la passione per la cinematografia giapponese, madame Michel ricorre alla metafora della camelia sul muschio per rivelare la poesia, la meraviglia e l’immortale incanto delle cose più pure e semplici.

“La camelia sul muschio del tempio, il violetto dei monti di Kyoto, una tazza di porcellana blu, questo dischiudersi della bellezza pura nel cuore delle passioni effimere non è ciò a cui aspiriamo tutti? E che noi, Civiltà occidentali, non sappiamo raggiungere?

La contemplazione dell’eternità nel movimento stesso della vita.

…Io sono molto camelia sul muschio. A pensarci bene, nient’altro potrebbe spiegare la mia reclusione in questa tetra guardiola. …In effetti, quando la lotta contro l’aggressività del primate si appropria di queste armi prodigiose che sono i libri e le parole, l’impresa è agevole: e così divenni un’anima istruita che attinge dai segni scritti la forza di resistere alla sua natura”.

In qualche modo, l’autrice, attraverso le sue protagoniste, dice cose che fanno tanta compagnia a chi si sente strano e solo nella propria visione dell’esistenza. Per quanto poco ospitale possa essere la società in cui si vive, esiste una bellezza divina; che è quella che si cela dietro alle luci e alle ombre del quotidiano. La camelia sul muschio è il sorriso di un passante in un giorno piovoso, una canzone che parte alla radio e che parla di te, il volo improvviso di un branco di fenicotteri, la prima rondine di primavera … e tanto altro per chi è disposto a cercarlo e a ricordarsene.

Solo verso la fine del romanzo Paloma e Renée si incontrano e si riconoscono. La ragazza ha il dono di saper cogliere l’invisibile eleganza della custode del condominio; di individuare nelle sue forme sgraziate e nei suoi modi asciutti la roccaforte che immette nelle stanze più belle del castello.

“Madame Michele ha l’eleganza del riccio: fuori è protetta da aculei, una vera e propria fortezza, ma ho il sospetto che dentro sia semplice e raffinata come i ricci, animaletti fintamente indolenti, risolutamente solitari e terribilmente eleganti”.

L’amicizia nasce in modo immediato, poiché la bambina, con le sue domande e con i suoi discorsi insoliti per una dodicenne, entra nelle giornate della portinaia di rue de grenelle.

“E rimaniamo lì a lungo , tendendoci per mano, senza dire niente, sono diventata amica di una bella anima di dodici anni verso la quale provo un’enorme gratitudine, senza che l’incongruità di questo attaccamento simmetrico per età, condizione e circostanze riesca a sminuire la mia emozione”.

La vicenda offrirebbe altri spunti di analisi e riflessione, taluni personaggi come Manuela e monsieur Ozo meriterebbero una recensione a parte. Anche costoro, analogamente alle camelie, al violetto dei monti di Kyoto, alle tazze di porcellana blu dischiudono bellezza nel cuore di Renée.

Le risposte che la bambina trova dentro di sé possono essere interpretate come un invito ad accorgersi che qualcosa accade, nel momento in cui lo si vive…Rendersi conto della propria felicità durante e non dopo.

“Guardando lo stelo e il bocciolo cadere, ho intuito in un millesimo di secondo l’essenza della Bellezza. Si, proprio io, una marmocchia di dodici anni e mezzo, ho avuto questa fortuna inaudita, perché stamattina c’erano tutte le condizioni favorevoli: mente vuota, casa calma, belle rose, caduta di un bocciolo… è una questione di tempo e di rose. Il bello è ciò che cogliamo mentre sta passando”.

“Stasera, ripensandoci, con il cuore e lo stomaco in subbuglio, mi dico che forse in fondo la vita è così: molta disperazione, ma anche qualche istante di bellezza dove il tempo non è più lo stesso. È come se le note musicali creassero una specie di parentesi temporale, una sospensione, un altrove in questo luogo, un sempre nel mai”.

Ogni volta che avrò l’impressione di essere felice, o proverò una strana gioia o il desiderio di trattenere qualcosa che sta per passare, sarà il mio sempre nel mai.

 


Solo se riesci ad accogliere il visibile e l’invisibile, quel rettangolo di cielo lassù può iniziare ad avere un senso.
(Fabrizio Caramagna)

venerdì, aprile 05, 2024

OCCHIALI NUOVI DI ... ROSSANA PALIERI LAROSE

 

Sono trascorsi quattro anni dalla data di apertura del mio blog. Ho descritto viaggi, condiviso esperienze e commentato numerose letture. Tuttavia, stavolta non si tratta solo di un libro ma di un vero e proprio viaggio nel tempo … il mio, dal momento che ne sono l’autrice. Care lettrici e cari lettori, miei amatissimi quattro gatti, vi presento Occhiali Nuovi.

Una mattina di due autunni fa giunse a prelevarmi un veicolo spaziale, pilotato da uno straordinario equipaggio di undici persone. Si aprì lo sportello e senza esitare entrai all’interno dell’astronave. La squadra mi accolse con sorrisi e cordialità, ciascun membro della squadra mi accompagnò nella propria epoca e mi lasciò in dono le immagini della sua particolare storia. Domenica (1925), Harry ed Helga (1931), Editta e Fanny (1932), Amabile (1935), Klaus (1939), Rosemarie (1940), Attilio (1942), Ulrich (1943) e Maria Estela (1944), a turno mi prestarono degli occhiali magici. Ogni volta in cui mi intrattenevo a parlare con loro, indossandoli, potevo vedere il luogo in cui erano nati, cresciuti e tutte le vicende che avevano attraversato. Per mezzo di quelle lenti dai poteri incredibili, ho scoperto di aver perso un fratello nella campagna di Russia, di essere scappata dalla furia omicida dei soldati dell’Armata Rossa, di essere sopravvissuta alla catastrofe e ai bombardamenti. Mi sono vista mondare il riso e allevare bachi da seta … e poi, quando sono diventata ebrea, sono scappata nelle fogne per sfuggire alle deportazioni. Qualche anno dopo la fine della guerra, ho vissuto a Berlino ma un muro infinito, più largo che lungo, mi impediva di vedere l’altro lato del cielo. Di armi non ne volevo sapere, così ho disertato e sono andata a lavorare in miniera, fino a non distinguere più il giorno dalla notte. In Spagna, ho aiutato tanti bambini a venire al mondo e, alla fine, danzando sulle note dei musical più belli, sono diventata ballerina. Di dittatura in dittatura, di decennio in decennio, ho attraversato i giorni e osservato la realtà così come mi si palesava.

Il soggiorno sulla navicella durò circa un anno solare. Mi ci volle un po’ per riprendere le vecchie abitudini. Continuavo a pensare a quella fantastica ciurma, così vitale e forte. Ne sentii parecchio la mancanza. Poi, frugando nella borsa, trovai un astuccio. Domenica, senza che la vedessi, mi aveva nascosto gli occhiali magici in una tasca. Fu una delle ultime cose che fece, prima di partire verso il sole.

Dunque, ancora una volta m’infilai quelle lenti e incominciai a scrivere. Elaborai le altrui vicende e cercai di farle mie: soprattutto ne accolsi tanto il bene quanto il male, per poterne riferire al mondo e gridare «É successo! È successo! È successo!».

Da allora la mia visione dell’esistenza è cambiata e quando gli eventi mi sembrano incomprensibili, prendo posto su un’altra sedia e indosso i miei occhiali nuovi.

Ringraziando il mio fantastico equipaggio, auguro a chiunque legga o leggerà questo libro certamente una gradevole lettura ma ancor di più un fantastico viaggio nel tempo.

Rossana PL

 



mercoledì, marzo 13, 2024

AVEVANO SPENTO ANCHE LA LUNA di RUTA SEPETYS


ll romanzo di Ruta Sepetys descrive, pur attraverso personaggi inventati, vicende reali: fatti troppo e purtroppo ignorati o solo superficialmente conosciuti.

Nell’estate del 1940 quando i paesi baltici vengono annessi all’Unione Sovietica, la dittatura di Stalin mette in atto un’implacabile campagna al fine di eliminare ogni potenziale minaccia per il regime. Pertanto, famiglie intere e persone di qualsiasi estrazione sociale vengono aggiunte alle liste dei nemici di classe, arrestate e deportate in un girone infernale.

La vicenda di Lina, voce narrante della storia, incomincia proprio con questo traumatico avvenimento.

“Mi arrestarono in camicia da notte … Non fu un bussare, fu un rimbombo cupo e insistente che mi fece sobbalzare sulla sedia”.

Solo nei giorni tra il 14 e il 18 giugno 1941 la polizia sovietica cattura in Lituania 45 mila abitanti, tra questi ci sono 2’400 bambini che hanno meno di dieci anni. I prigionieri sono condotti alla stazione e costretti a salire sui vagoni merci, ammassati come bestie. Nel corso di un viaggio ai confini della realtà, durante il quale molti prigionieri muoiono di stenti, i convogli raggiungono i gulag siberiani.

Analogamente a ciò che accade agli ebrei nell'Europa occupata dai nazisti, nel momento in cui gli abitanti del villaggio di Lina salgono sulle carrozze dei treni, vengono privati della dignità. Agli occhi dei soldati della polizia sovietica (NKVD) questi individui smettono all’istante di essere persone, quegli occhi, quei corpi magri diventano una materia animata ma senza anima nè cuore e diritti. Forse è proprio quello il momento in cui la luna si spegne, ancora prima dell'arrivo in Siberia.

“Sorse il sole e la temperatura nel vagone si alzò rapidamente. L’odore stagnante di feci e di urina incombeva su di noi come una coperta sudicia… Una guardia si avvicinò al vagone e ci porse due secchi uno d’acqua e uno di brodaglia…L’intruglio grigio sembrava mangime per animali. Qualche bambino si rifiutò di mangiarlo”.

I personaggi raggiungono la zona dei monti Altaj in Mongolia, ad una distanza di quasi 6 mila chilometri dalla loro terra di origine. Dopo alcuni mesi in questo campo di lavoro forzato, Lina e la sua famiglia si separano dagli altri per essere trasferiti fino a Trofimovsk, luogo gelido e inospitale alle soglie del mar glaciale Artico.

Proprio come i lager nazisti, i gulag sono dei campi di concentramento. Il regime sovietico si avvale di questo tipo di insediamento per eliminare chiunque sia ritenuto scomodo, indesiderato sulla base di sospetti infondati o su indicazione di subdoli delatori. Imponendo ritmi di lavoro disumani, in condizioni climatiche estreme, il governo sfrutta i reclusi fino al loro completo annientamento. Fame, fucilazioni arbitrarie, minacce, continue violenze fisiche e psicologiche sono all’ordine del giorno.

“Si avvicinò l’autunno. L’NKVD ci faceva lavorare sempre di più. Se per caso osavamo incespicare, riducevano la nostra razione di pane. La mamma riusciva a racchiudere il mio avambraccio fra il pollice e il medio della sua mano. Non avevo più lacrime… Era difficile immaginare che la guerra infuriava da qualche parte in Europa. Noi avevamo la nostra guerra personale, aspettando che l’NKVD scegliesse la vittima successiva, che ci gettasse nella prossima buca”.

L’io narrante è la voce di una ragazza adolescente, quattordicenne al momento del rastrellamento. Tra le varie figure del romanzo lei spicca con una straordinaria forza di volontà. Consapevole di essere nelle mani di carnefici perversi, reagisce alla malvagità con coraggio e senza vittimismo. Al contrario, usa il talento del disegno, per rappresentare graficamente tutto il male di cui è testimone e lasciare ai posteri, tramite la potenza delle illustrazioni, il suo grido di denuncia.

“Era più difficile morire o essere tra i sopravvissuti? Io avevo sedici anni, ero un’orfana in Siberia, ma conoscevo la risposta. Era l’unica cosa di cui non avevo mai dubitato. Volevo vivere. Volevo vedere mio fratello crescere. Volevo rivedere la Lituania…Volevo annusare il mughetto nella brezza sotto alla mia finestra. Volevo dipingere nei prati…C’erano solo due possibili esiti in Siberia. Il successo significava vivere. Il fallimento significava morire. Il volevo la vita. Io volevo sopravvivere”.

L’autrice, di origine Lituana, scrive questo romanzo dopo avere svolto un’accurata ricerca, documentandosi mediante le testimonianze dei superstiti o ascoltando quelle dei loro discendenti.

Alcune guerre si vincono con i bombardamenti. Per le popolazioni del Baltico questa guerra è stata vinta credendoci. Nel 1991, dopo cinquant’anni di brutale occupazione, i tre paesi baltici hanno riconquistato l’indipendenza in maniera pacifica e con dignità. Hanno scelto la speranza e non l’odio e hanno dimostrato al mondo che anche alla fine della notte più buia c’è la luce. Per favore, fate ricerche sull’argomento. Parlatene. Queste tre piccole nazioni ci hanno insegnato che l’amore è l’esercito più potente”.

Parliamone!

 

 Dovremmo riempire il cuore di gentilezza, la bocca di educazione, le mani di accoglienza e la testa di buoni libri.

 Forse solo così potremmo tornare a essere umani.

                                                    (Fabrizio Caramagna)

 

 

 

 


martedì, febbraio 27, 2024

LESSICO FAMIGLIARE di Natalia Ginzburg

 


LESSICO FAMIGLIARE nasce dall’intenzione dell’autrice di realizzare un breve racconto con cui rappresentare il linguaggio e le memorie della propria famiglia. Lo spunto linguistico in realtà si spinge oltre le previsioni della scrittrice e diviene una lunga analisi, attenta e approfondita, di tutto il mondo che le ruota intorno: epoche, persone e personaggi, dinamiche sociali, culturali e politiche compongono un grande affresco storico, umano e psicologico.

La cronaca inizia proprio con l’infanzia di Natalia Ginzburg, la più piccola dei cinque figli della famiglia Levi, ebraica dalla parte paterna e cattolica da quella materna.  Il modo in cui parenti e amici sono descritti, li rende riconoscibili e consueti negli atti, nelle reazioni e nelle fissazioni. Fin da piccola, la narratrice li osserva cosi come li vede e come li vive di giorno in giorno, mostrandoli senza giudizio. Istintivamente li si comprende, poiché le loro azioni corrispondono alla loro natura. Il personaggio più impetuoso è certamente il padre Giuseppe. Uomo di grande cultura, professore universitario, scontroso, testardo, insopportabile e incorreggibile. Coltissimo, eppure incapace di cambiare il proprio punto di vista, prigioniero di se stesso e delle proprie convinzioni. Il lettore, già dopo poche pagine, lo compatisce poiché riconosce subito nella sua inadeguatezza l’impossibilità di progredire.

«Mio padre invece usava gettare sulle cose nuove, che non conosceva uno sguardo torvo, pieno di sospetto».

«-Cosa sono tutti quei fulignezzi? I fulignezzi erano, per mio padre, i segreti: e non tollerava veder la gente assorta a parlare, e non sapere cosa si dicevano».

Lidia, la madre, è una donna affettuosa, amorevole ma anche volubile e dall’animo mutevole, spesso un’anima in pena, che non sta bene veramente da nessuna parte.

«Come vorrei essere un re fanciullo, - diceva mia madre con un sospiro e un sorriso, perché le cose che più la seducevano al mondo erano la potenza e l’infanzia, ma le amava combinate insieme, così che la seconda mitigasse la prima con la sua grazia, e la prima arricchisse la seconda di autonomia e di prestigio».

Di questa figura ciò che più ho apprezzato è la naturale inclinazione a diventare cinque madri diverse, modellando ogni volta se stessa in base alle esigenze di ciascun figlio.

«Com’è carino, com’è simpatico Mario – diceva mia madre lisciando i capelli a Mario che s’era appena alzato, e aveva per il sonno, gli occhi piccoli, quasi invisibili … - Non trovi anche tu che il Mario è bello? - chiedeva a mio padre. – Io non lo trovo tanto bello. È più bello il Gino – rispondeva mio padre».

«Mia madre sentiva per me un senso di protezione che non sentiva per gli altri suoi figli, forse perché io ero, dei suoi figli, la minore … Inoltre le sembrava sempre che io fossi in pericolo, perché Leone di tanto in tanto lo arrestavano».

La storia dagli anni del fascismo fino al dopoguerra è coprotagonista di tutta la vicenda dei Levi. I tragici accadimenti di quell’epoca hanno immediate conseguenze nelle dinamiche della famiglia. Tanto che l’opera è una testimonianza davvero preziosa di quegli anni cruciali per il destino di tutti e degli ebrei in particolare.

«E poi mio padre … pensava di essere uno dei pochi antifascisti rimasti in Italia … Salvatorelli, i Carrara, l’ingegner Olivetti erano i pochi antifascisti rimasti, per mio padre, al mondo. Essi conservavano, con lui, ricordi del tempo di Turati, e di un falso costume di vita che sembrava fosse stato spazzato via dalla terra. Stare in compagnia di queste persone significava respirare un sorso d’aria pura».

Natalia sposa Leone Ginzburg, intellettuale, ebreo e antifascista.

«Leone dirigeva un giornale clandestino ed era sempre fuori casa. Lo arrestarono, venti giorni dopo il nostro arrivo, e non lo rividi mai più».

Dell’intero romanzo mi impressione il punto di osservazione da cronista. La scrittrice riesce sempre a rimanere oggettiva, i fatti sono i fatti così come si sono svolti. Il dolore si immagina, si interpreta ma non lo si descrive. Inevitabilmente davanti al lettore scorrono i fotogrammi degli avvenimenti ma l’identificazione con le emozioni dei protagonisti richiede uno sforzo ulteriore.

Di Lessico Famigliare l’aspetto più interessante per me resta ciò che il titolo contiene: quel linguaggio particolare ed esclusivo che le famiglie usano per comunicare nella quotidianità e che, in parte, sostituisce ed integra l'idioma ufficiale. Per tacito accordo tutti i membri del focolare domestico, ricorrendo a delle parole che solo loro possono riconoscere, consolidano il senso di appartenenza al proprio gruppo.

«Noi siamo cinque fratelli. Abitiamo in cinque città diverse, alcuni di noi stanno all’estero: e non ci scriviamo spesso. Quando c’incontriamo possiamo essere, l’uno con l’altro, indifferenti o distratti. Ma basta, fra noi, una parola. Basta una parola, una frase: una di quelle frasi antiche, sentite e ripetute infinite volte, nel tempo della nostra infanzia. Ci basta dire (…) De cose spussa l’acido solfidrico per ritrovare a un tratto i nostri antichi rapporti… Una di quelle frasi ci farebbe riconoscere l’uno con l’altro, noi fratelli, nel buio di una grotta, fra milioni di persone».

Alcune espressioni come non fate malegrazie, non fate sbrodeghezzi, cosa sono tutti quei fulignezzi … evocano probabilmente in ogni famiglia un analogo repertorio. Allora mi soffermo sul mio lessico famigliare, costruito attraverso episodi buffi, presi in prestito dall’infanzia, reso ancora più strano dal miscuglio dei dialetti e delle lingue che hanno attraversato la mia vita. Mia zia che diceva di mangiare l’insalata che sgrümasa (e sgrümaserà per sempre), mia figlia che ci chiedeva cosa facete? o si complimentava dicendo brava idea! Per non parlare dell’isola di Gallinara in Liguria ribattezzata isola della gallina. Insomma tutti abbiamo contribuito alla costruzione di un gergo magico e poetico, straordinariamente efficace. Comunque vadano le cose e per quanto possano essere complicate le relazioni, laddove esiste un lessico famigliare, esiste una famiglia.

 

 

 

 

 

 


giovedì, febbraio 08, 2024

SOLARIS di STANISLAW LEM


Nonostante il genere della fantascienza sia lontanissimo dai miei interessi, credo che sia bene, di tanto in tanto, esplorare zone sconosciute per vedere altro e fare esercizio di pensiero trasversale: in effetti, il libro di Stanislaw Lem ha numerosi aspetti su cui vale la pena soffermarsi.

Solaris è un pianeta in cui l’unica forma di vita è un oceano gelatinoso e pensante. Lo psicologo Chris Kelvin, che vi si reca in missione, riscontra immediatamente una serie di stranezze: morti sospette, visioni strambe e misteriose. Gli scienziati lì residenti sono molto turbati e confusi.  L’intera vicenda della stazione spaziale ruota intorno al moto di un mare intelligente, un marasma in grado di scansionare la memoria degli studiosi durante il sonno, carpendone desideri ed intimi pensieri, al fine di creare delle repliche, altri ospiti che altro non sono che le proiezioni dei loro ricordi. Nel caso di Chris, sconvolgente è l’incontro con la moglie (o la sua copia), morta suicida dieci anni prima della missione.

Nonostante le tante pagine difficili da comprendere, per chi, come nel mio caso, non abbia delle solide basi scientifiche, il libro è davvero straordinario per la sua modernità. Basti immaginare che, benché Solaris sia stato pubblicato per la prima volta nel 1961, i personaggi comunicano tra loro all’interno della base spaziale attraverso una primordiale chat di gruppo.

L’attenzione del lettore si rivolge sia al sapere scientifico che alla psicologia, e mi chiedo quale tra le due discipline sia più ostica da esplorare. Gli ambiti che indagano mondo esterno e natura osservano delle leggi meccaniche, nelle quali il ripetersi di certi fenomeni di solito dà luogo a delle regole, pur con tutte le possibili eccezioni. Quando invece si percorre il campo delle scienze umane e delle psiche non è forse ogni singolo uomo l’eccezione per antonomasia? Ciascun individuo costituisce una singola ed irripetibile materia di studio, con dinamiche proprie e tuttavia non sempre comprensibili.

“L’uomo era andato incontro ad altri mondi ed altre civiltà senza conoscere fino in fondo i propri anfratti, i propri vicoli ciechi, le proprie voragini e le proprie porte sbarrate”.

Già nel 1961 l’autore mette in luce l’arroganza e l’egoismo della nostra specie, ne denuncia tutta l’ipocrisia, quando nel proclamare i più nobili obiettivi, in realtà questa persegua unicamente l’espansione del proprio ego. Davvero l’uomo è alla ricerca del progresso attraverso il confronto, o è più facilmente teso ad affermare la sua potenza mediante l’annichilimento di tutto ciò che lo ostacola o lo mette in discussione?

“In realtà quello che vogliamo non è conquistare il cosmo ma estendere la terra fino alle sue frontiere…siamo nobili e umanitari, non vogliamo asservire le altre razze ma solo trasmettere loro i nostri valori e, in cambio, impadronirci del loro patrimonio. Ci consideriamo i cavalieri del Santo Contatto e questa è la menzogna numero due: la verità è che cerchiamo soltanto la gente. Non abbiamo bisogno di altri mondi ma di specchi…Il fatto è che non arriviamo dalla terra come campioni di virtù o come monumenti dell’eroismo umano: ci portiamo dietro esattamente quello che siamo e quando l’altra parte ci svela la nostra verità ­­– il lato che teniamo nascosto – non riusciamo ad accettarla!”.

Da questa lettura ho capito che anche se un testo non mi appassiona o mi costa fatica nel leggerlo, non è detto che non abbia qualcosa di importante da trasmettere. Per tutto il tempo mi chiedevo:«ma qual è il messaggio? Perché qualcuno mi ha assegnato questo compito? Cosa devo imparare?». Trattandosi di un libro di fantascienza ognuno può trarre le più originali conclusioni. La mia è che noi terrestri, in generale, tendiamo istintivamente a proiettare sugli altri una personalissima visione dell’esistenza e nel farlo interagiamo con il prossimo più come se fosse uno specchio che un essere separato e indipendente dai nostri ragionamenti: proiettiamo aspettative, desideri, il nostro concetto di giusto o sbagliato. A Chris viene restituita la replica della moglie Harey, non la compagna come è veramente ma quello che l’oceano ha scoperto nel subconscio del protagonista, come lui la vede, la vuole e la sente. Queste presenze alla fine sono dei simulacri, che non riportano in vita se stesse ma l’immagine che gli umani avevano di loro. Il messaggio forte e chiaro è quello di sforzarsi di guardare gli altri per come sono veramente e non per come noi ci ostiniamo a vederli. Del resto, per quanto sia complicato mettersi da parte, è decisamente più gratificante essere circondati da anime vive, vere, pensanti e dissenzienti piuttosto che da pura apparenza.

Ora, detto questo, le persone che ci stanno sulle palle (perdonate il francesismo) possono continuare a stare lì dove si trovano ma… si può fare il piccolo esercizio di ricordare che costoro sentono, vivono e pensano a proprio modo e piacimento, a prescindere da noi e, probabilmente, quei loro gesti fastidiosi avvengono nostro malgrado e non a causa di uno studiato piano persecutore. Proviamo a convincerci che, per fortuna, noi non siamo così importanti per loro. Siamo solo e per fortuna diversi da loro.



 

 

 

 

 

 

 

giovedì, gennaio 18, 2024

MATTATOIO N. 5 di KURT VONNEGUT

 

Si tratta di un romanzo di fantascienza del 1966. E la prima volta che leggo un libro di questo genere e, se non mi fosse stato assegnato come compito, mai lo avrei scelto. Ammetto con sorpresa che ne è valsa davvero la pena.

Attraverso il personaggio di Billy Pilgrim, l’autore descrive la distruzione di Dresda e  mette in evidenza con straordinaria originalità la barbarie della guerra: lo fa mescolando il reale al surreale, fino a confondere il lettore. Il protagonista viaggia in una dimensione spaziotemporale e cambia continuamente contesto: lo scenario bellico della seconda guerra mondiale si alterna all’America degli anni sessanta come pure ad una prigionia presso gli alieni di indefinibile durata.

Billy sembra non avere il minimo controllo sulle cose che gli accadono, tanto che le vive come se venisse trasportato all’interno di un inarrestabile flusso: galleggiando in direzione della corrente, egli si abbandona al perpetuo caos dell'universo. Qualsiasi evento gli si scagli contro, lui osserva, va avanti e, lasciando andare ogni giudizio, cerca di sopravvivere. Il suo fascino principale è proprio saper stare nel momento con l’ingenuità e l’innocenza di un bambino. Di conseguenza, che sia il racconto della reclusione dell’autore nelle mani dei tedeschi, quello della sua professione di ottico o che si tratti della narrazione del rapimento sul pianeta di Tralfamadore, ciascun istante è vissuto in un presente eterno e dilatato.

Talvolta Pilgrim ha bisogno di versare qualche lacrima per consentire alle emozioni di uscire ma non si lamenta e non si piange mai addosso.

Ciò su cui la storia fa riflettere sono i temi dell’accettazione e della scelta. Gli esseri umani istintivamente cercano di avere il controllo sull’esistenza, fanno fatica ad accogliere eventi non scelti e indipendenti dalla loro volontà. Al contrario Billy, invece di opporre resistenza e sacrificare preziose risorse, ripete come un mantra la frase “cosi è la vita”. Nonostante le conseguenze più agghiaccianti del conflitto siano senza sosta sotto il suo sguardo e benché lutti e dolore ripetutamente lo colpiscano, l'approccio dell'autore rivela una luce di fondo, la fiducia che la morte sia un passaggio veloce al quale seguirà non tanto un nuovo inizio ma piuttosto un proseguimento. In sostanza, si muore per continuare a vivere. 

“Se è vero quello che Billy Pilgrim ha imparato dai tralfamadoriani , e cioè che tutti noi vivremo in eterno, indipendentemente dal fatto che ogni tanto possiamo sembrare morti, non ne sono poi così felice. Comunque, se devo passare l’eternità visitando ora questo e ora quel momento, sono grato che tanti di questi momenti siano belli”.

Il protagonista è strano, strano ma bello. La sua attitudine è una sfida, poiché istintivamente i più si illudono di controllare non solo la propria vita ma anche lo spazio e il tempo. In realtà l’unica certezza che possiamo avere è quella di essere parte di un grande mistero, all’interno del quale è sensato fare bene, coscienti che le cose semplicemente accadono e le persone semplicemente sono.

“Sulla parete del suo ufficio Billy aveva una preghiera incorniciata che esprimeva il suo metodo per tirare avanti …

DIO MI CONCEDA LA SERENITÂ DI ACCETTARE LE COSE CHE NON POSSO CAMBIARE, I CORAGGIO DI CAMBIARE QUELLE CHE POSSO E LA SAGGEZZA DI COMPRENDERE SEMPRE LA DIFFERENZA”.

 

DOMANI, DOMANI di Francesca Giannone

  Il romanzo si svolge nel Salento durante il biennio compreso tra l’estate del 1958 e quella del 1960. Lorenzo e Agnese gestiscono insiem...