ll romanzo di Ruta Sepetys descrive, pur attraverso
personaggi inventati, vicende reali: fatti troppo e purtroppo ignorati o solo
superficialmente conosciuti.
Nell’estate del 1940 quando i paesi baltici vengono
annessi all’Unione Sovietica, la dittatura di Stalin mette in atto
un’implacabile campagna al fine di eliminare ogni potenziale minaccia per il
regime. Pertanto, famiglie intere e persone di qualsiasi estrazione sociale
vengono aggiunte alle liste dei nemici di classe, arrestate e deportate in un
girone infernale.
La vicenda di Lina, voce narrante della storia,
incomincia proprio con questo traumatico avvenimento.
“Mi arrestarono in camicia da notte … Non fu un
bussare, fu un rimbombo cupo e insistente che mi fece sobbalzare sulla sedia”.
Solo nei giorni tra il 14 e il 18 giugno 1941 la
polizia sovietica cattura in Lituania 45 mila abitanti, tra questi ci
sono 2’400 bambini che hanno meno di dieci anni. I prigionieri sono condotti
alla stazione e costretti a salire sui vagoni merci, ammassati come bestie. Nel
corso di un viaggio ai confini della realtà, durante il quale molti prigionieri
muoiono di stenti, i convogli raggiungono i gulag siberiani.
Analogamente a ciò che accade agli ebrei
nell'Europa occupata dai nazisti, nel momento in cui gli abitanti del villaggio
di Lina salgono sulle carrozze dei treni, vengono privati della dignità. Agli
occhi dei soldati della polizia sovietica (NKVD) questi individui smettono
all’istante di essere persone, quegli occhi, quei corpi magri diventano una
materia animata ma senza anima nè cuore e diritti. Forse è proprio quello il
momento in cui la luna si spegne, ancora prima dell'arrivo in Siberia.
“Sorse il sole e la temperatura nel vagone si alzò
rapidamente. L’odore stagnante di feci e di urina incombeva su di noi come una
coperta sudicia… Una guardia si avvicinò al vagone e ci porse due secchi uno
d’acqua e uno di brodaglia…L’intruglio grigio sembrava mangime per animali.
Qualche bambino si rifiutò di mangiarlo”.
I personaggi raggiungono la zona dei monti Altaj in
Mongolia, ad una distanza di quasi 6 mila chilometri dalla loro terra di
origine. Dopo alcuni mesi in questo campo di lavoro forzato, Lina e la sua
famiglia si separano dagli altri per essere trasferiti fino a Trofimovsk, luogo
gelido e inospitale alle soglie del mar glaciale Artico.
Proprio come i lager nazisti, i gulag sono dei
campi di concentramento. Il regime sovietico si avvale di questo tipo di
insediamento per eliminare chiunque sia ritenuto scomodo, indesiderato sulla
base di sospetti infondati o su indicazione di subdoli delatori. Imponendo
ritmi di lavoro disumani, in condizioni climatiche estreme, il governo sfrutta
i reclusi fino al loro completo annientamento. Fame, fucilazioni arbitrarie,
minacce, continue violenze fisiche e psicologiche sono all’ordine del giorno.
“Si avvicinò l’autunno. L’NKVD ci faceva lavorare
sempre di più. Se per caso osavamo incespicare, riducevano la nostra razione di
pane. La mamma riusciva a racchiudere il mio avambraccio fra il pollice e il
medio della sua mano. Non avevo più lacrime… Era difficile immaginare che la
guerra infuriava da qualche parte in Europa. Noi avevamo la nostra guerra
personale, aspettando che l’NKVD scegliesse la vittima successiva, che ci
gettasse nella prossima buca”.
L’io narrante è la voce di una ragazza adolescente,
quattordicenne al momento del rastrellamento. Tra le varie figure del romanzo
lei spicca con una straordinaria forza di volontà. Consapevole di essere
nelle mani di carnefici perversi, reagisce alla malvagità con coraggio e senza
vittimismo. Al contrario, usa il talento del disegno, per rappresentare
graficamente tutto il male di cui è testimone e lasciare ai posteri, tramite la
potenza delle illustrazioni, il suo grido di denuncia.
“Era più difficile morire o essere tra i
sopravvissuti? Io avevo sedici anni, ero un’orfana in Siberia, ma conoscevo la
risposta. Era l’unica cosa di cui non avevo mai dubitato. Volevo vivere. Volevo
vedere mio fratello crescere. Volevo rivedere la Lituania…Volevo annusare il
mughetto nella brezza sotto alla mia finestra. Volevo dipingere nei
prati…C’erano solo due possibili esiti in Siberia. Il successo significava
vivere. Il fallimento significava morire. Il volevo la vita. Io volevo
sopravvivere”.
L’autrice, di origine Lituana, scrive questo
romanzo dopo avere svolto un’accurata ricerca, documentandosi mediante le
testimonianze dei superstiti o ascoltando quelle dei loro discendenti.
“Alcune guerre si vincono con i bombardamenti. Per
le popolazioni del Baltico questa guerra è stata vinta credendoci. Nel 1991,
dopo cinquant’anni di brutale occupazione, i tre paesi baltici hanno
riconquistato l’indipendenza in maniera pacifica e con dignità. Hanno scelto la
speranza e non l’odio e hanno dimostrato al mondo che anche alla fine della
notte più buia c’è la luce. Per favore, fate ricerche sull’argomento.
Parlatene. Queste tre piccole nazioni ci hanno insegnato che l’amore è
l’esercito più potente”.
Parliamone!
Dovremmo riempire il
cuore di gentilezza, la bocca di educazione, le mani di accoglienza e la testa
di buoni libri.
Forse solo così potremmo
tornare a essere umani.
(Fabrizio Caramagna)